Onorevoli Colleghi! - La legge delega in materia previdenziale 23 agosto 2004, n. 243, approvata dal Governo Berlusconi e meglio nota come «legge Maroni», rappresenta l'ultimo atto di un processo di riforma iniziato nel 1992, che ha largamente armonizzato le regole dei diversi regimi pensionistici, innalzando progressivamente l'età di accesso alle pensioni di anzianità e di vecchiaia, principalmente su base volontaria, ridimensionandone anche l'importo attraverso una modifica del sistema di calcolo e sviluppando una previdenza complementare da affiancare a quella pubblica.
      Obiettivo di fondo di questi interventi, sollecitati da tutti gli osservatori internazionali al fine di contribuire a tenere sotto controllo la finanza pubblica, sarebbe stato quello di assicurare al sistema pensionistico la sua sostenibilità finanziaria, obiettivo al quale, peraltro, per intervento sindacale, si è affiancato quello di assicurare una maggiore equità del sistema attraverso un'armonizzazione dei diversi regimi pensionistici.

 

Pag. 2


      Il Governo Berlusconi ha invece dimostrato di voler mettere in atto una vera e propria «controriforma». Infatti, la sbandierata esigenza della «sostenibilità finanziaria» del sistema previdenziale, attribuita dal centro-destra alle autorità europee e alla quale si è appellato allorquando fu varata la legge, è frutto di mistificazione. L'Europa, infatti, già da tempo esorta i Governi dei Paesi membri a garantire l'adeguatezza delle prestazioni previdenziali, e il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che pone a fondamento di qualsiasi modifica dei sistemi previdenziali dei vari Paesi la flessibilizzazione dell'età pensionabile e del passaggio dalla vita attiva alla pensione (risoluzione del 24 settembre 2003). Il Parlamento europeo, inoltre, si è pronunciato, in maniera chiara e inequivocabile, contro qualsiasi aumento obbligatorio dell'età pensionabile, manifestando invece la propria approvazione «per un innalzamento dell'età effettiva di pensionamento, che venga realizzato con incentivi e non con disincentivi quali la drastica riduzione dell'entità della pensione».
      La nuova regolamentazione, introdotta con la citata legge n. 243 del 2004, prevede che a decorrere dal 1o gennaio 2008 la pensione di anzianità potrà conseguirsi solo con la contestuale presenza di un'anzianità contributiva pari a 35 anni e di un requisito anagrafico pari a 60 anni di età, che sale a 61 anni dal 2010 e, salvo le risultanze di una specifica verifica nel corso del 2013, a 62 anni nel 2014; requisiti anagrafici elevati di un anno per i lavoratori autonomi.
      Tali modifiche dei requisiti di accesso alla pensione di anzianità, unite alla riduzione delle cosiddette «finestre di uscita», dovrebbero produrre, secondo le stime dell'allora Ministro proponente, un innalzamento dell'età media di pensionamento di almeno tre anni e comportare una significativa riduzione dell'incidenza in termini di prodotto interno lordo (PIL) della spesa pensionistica pari, a regime, a circa 9 miliardi di euro.
      L'esigenza di un innalzamento dell'età pensionabile a fronte dell'aumento dell'aspettativa di vita e dell'invecchiamento della popolazione rappresenta senza dubbio un problema reale, ma le modalità con le quali la cosiddetta «legge Maroni» opera non sono condivisibili per una serie di ragioni.
      La prima di queste ragioni è rappresentata dagli iniqui effetti riconducibili al brusco innalzamento da 35 a 40 degli anni di contributi richiesti per l'accesso alle pensioni di anzianità, e al fatto che a decorrere dal 1o gennaio 2008 la stessa pensione di anzianità potrà conseguirsi solo se sono soddisfatte contemporaneamente due condizioni: un'anzianità contributiva di 35 anni e il requisito anagrafico di 60 anni di età, effetto meglio noto come «scalone» (o dei «3 anni in un giorno»), e che costituisce un unicum nel panorama di riforme del welfare varate in questi ultimi decenni dai Paesi europei, nei quali invece la gradualità delle misure adottate ha caratterizzato la base di tutti gli interventi riformatori.
      D'altra parte, introdurre una differenza di tre anni tra chi matura il diritto il 31 dicembre del 2007 e chi lo potrebbe maturare il 1o gennaio del 2008 non ha nulla di logico ma, anzi, crea un divario artificiale tra le prestazioni previdenziali ottenibili da persone con caratteristiche simili divise solo dall'anno di pensionamento.
      Ancora più negativamente deve essere giudicata l'estensione dei requisiti anagrafici per il pensionamento a 65 anni di età per gli uomini, o a 60 anni di età per le donne, nel sistema contributivo, poiché tale estensione elimina una forma di flessibilità nel pensionamento universalmente indicata come necessaria in un sistema pensionistico moderno. La flessibilità di pensionamento tra i 57 e i 65 anni di età, infatti, consentiva, senza gravare sul sistema per effetto dei disincentivi insiti nei coefficienti di trasformazione, di modulare le uscite dal lavoro a seconda delle proprie esigenze. La citata legge delega n. 243 del 2004 ha dunque dimostrato di sottovalutare anche questo fenomeno insito nel sistema contributivo ed esistente, progressivamente, anche negli anni di applicazione del sistema misto.
 

Pag. 3


      La pensione calcolata con il sistema contributivo, e con quello misto quando il peso della parte contributiva è preponderante, è sensibilmente più bassa rispetto a quella ottenuta con il sistema retributivo. L'unico strumento che rimane disponibile al lavoratore per aumentare il suo importo è quello di lavorare più a lungo e di uscire dal mondo del lavoro a un'età anagrafica, e contributiva, più elevata. L'incremento di tre/quattro anni dell'età effettiva di pensionamento nel sistema contributivo, rispetto all'età media di pensionamento attuale, è già implicito nel funzionamento del sistema stesso, senza la necessità di porre limiti legali di età che ingessano inutilmente il sistema.
      Numerosi osservatori professionali riconoscono che l'innalzamento del requisito anagrafico per l'accesso alla pensione non è un'operazione riformatrice, ma una semplice operazione finanziaria che sposta nel tempo una spesa. Infatti, chi rinvia la pensione di tre anni ne percepirà una, quando la percepirà, di misura maggiore, recuperando il resto nei lunghi anni della sua speranza di vita: dunque i costi per il sistema a medio termine non variano. Ogni tipo di legislazione premiale per incentivare il ritardo nel pensionamento non produce, a lungo termine, alcun effetto sulla spesa del sistema, perché l'incentivo produrrà una quota di pensione e di spesa che verrà recuperata nel tempo, e lo stesso incentivo diminuirà il numero di anni in cui avverrà il recupero. Si tratta, pertanto, di risparmi a breve da ripagare nel tempo, senza variazioni significative della massa di spesa previdenziale all'epoca della famosa «gobba».
      Lo stesso Servizio studi della Camera dei deputati, all'epoca dell'esame del disegno di legge «Maroni», ebbe modo di rilevare che: «L'innalzamento del requisito anagrafico, comportando la fruizione ritardata della pensione rispetto a quanto fino ad ora previsto, comporterà per la finanza pubblica un effetto potenzialmente negativo, in quanto, accedendo più tardi al trattamento pensionistico, il beneficiario percepisce una pensione che in termini attuariali è più adeguata - vale a dire di ammontare più elevato - in quanto non subisce l'effetto di diminuzione dell'importo derivante dall'adeguamento ai soli prezzi (e non anche alla crescita economica) che opera sulle pensioni».
      D'altra parte, come dichiarato dalla stessa Ragioneria generale dello Stato in un rapporto redatto nel gennaio 2007 sulle tendenze della spesa pensionistica nel medio-lungo termine, l'introduzione dello «scalone» consentirà di ottenere consistenti risparmi di spesa solo per sei anni, e cioè dal 2008 fino al 2014, data dopo la quale l'andamento demografico sarà tale che il trend di crescita della spesa sarà solo «temporaneamente contrastato» dalle misure della «riforma Maroni» e rifletterà l'effetto immediato dell'innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento, che si concretizza in una riduzione del numero dei pensionati. Il rapporto tra spesa pensionistica e PIL riprenderà poi a crescere solo nel biennio 2014-2015, temporaneamente contrastato dall'ultima tranche di aumento dei requisiti minimi di pensionamento disposti dalla citata legge delega. Dunque, sempre a parere della Ragioneria generale dello Stato, l'effetto dello «scalone» esaurirà i suoi effetti nel 2016.
      È nostra opinione che, in una materia così delicata quale è quella previdenziale, occorre operare un processo di riforma che accolga un consenso sociale largamente diffuso e scevro da qualsivoglia pregiudizio, e che abbia come fulcro la ricostruzione di quella solidarietà tra generazioni che caratterizzava il precedente sistema. L'obiettivo principale dovrebbe essere quello di consentire a tutti l'accesso a meccanismi di pensione adeguati, pubblici o privati, che consentano di mantenere, in limiti ragionevoli, un dignitoso livello di esistenza.
      La presente proposta di legge, composta di un unico articolo, abroga i commi 6 e 7 dell'articolo 1 della legge n. 243 del 2004, che introducono la modifica dei requisiti di accesso al pensionamento anticipato, prevedendo l'odioso «scalone».
      La stima degli oneri finanziari derivanti dall'abrogazione di tali disposizioni, valutata
 

Pag. 4

dallo stesso Governo in sede di esame del disegno di legge, ammonta a circa 596 milioni di euro per l'anno 2008, 4.737 milioni di euro per l'anno 2009, 7.457 milioni di euro per l'anno 2010, 9.148 milioni di euro per l'anno 2011, 9.406 milioni di euro per l'anno 2012, 9.047 milioni di euro per l'anno 2013 e per gli anni successivi.
      Abbiamo previsto di fare fronte a tale impatto finanziario aumentando le aliquote fiscali delle rendite finanziarie, l'aliquota dell'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) per le banche e le assicurazioni, tassando ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) i redditi finanziari, e devolvendo alla spesa pensionistica le maggiori entrate afferenti al fondo per il trattamento di fine rapporto (TFR) degli «inoptati», altrimenti destinato alla spesa per gli investimenti.
 

Pag. 5